“Ecumenica” asocialità
La ricorrenza del 50° del Concilio Vaticano II, come ogni ricorrenza che si rispetti, mi induce a qualche inevitabile riflessione.
La prima: si è trattato, indubbiamente, di un evento formidabile per la Storia umana, attualmente ancora ineguagliato. Infatti, mai si erano visti convenire dai quattro angoli della Terra o, se preferite, dai cinque Continenti, i rappresentanti di uno stesso “credo” (laico o religioso che sia, nelle sue varie ‘correnti’).
La seconda: ho detto “si è trattato” ma, in effetti, l’evento è ancora in fieri. Lo Spirito che lo ha determinato soffia ancora. Molti i temi del concilio: alcuni furono (più o meno) trattati, altri (più o meno) disattesi ed altri ancora, col senno di oggi, neanche furono “capiti” (in parte o in tutto) nella loro potenzialità.
La terza: proprio perchè lo Spirito soffia, sempre e comunque, nella e sulla Storia — e qui mi limito a quella della Chiesa cattolica di cui ancora faccio parte … — credo sia giusto considerare quanto accaduto sino ad oggi come una sorta di momento evoluzionistico ecclesiale da non intendere, necessariamente, solo in senso «migliorativo».
D’altronde, i frutti prodotti dagli ambienti cattolici negli anni successivi al Concilio, anche quelli misti, sono sotto gli occhi di tutti. I “movimenti” e le “aggregazioni” nati in quel periodo ne sono inequivocabile testimonianza, in un senso (progressista) e nell’altro (conservatore), non dimenticando, inoltre, anche quelli a doppio senso (trasformisti) e, persino, quelli armati (ricordate qualche cattolico brigatista rosso o ordinenuovista nero?).
La quarta considerazione è che, grazie al Concilio, dopo millenoventosessantadue anni (un tic per il Creatore …), il Soffio di Dio è riuscito a scuotere “gregge” e “pastori” ricordando, al primo, di doversi evolvere al rango di “popolo” e, dunque, smettere di belare/vagire per diventare “adulto”, cioè “pensante”, e rammentando ai secondi di riflettere sul vero significato della parola collegialità/ecumenismo.
Ma, lo ripeto, non sempre i processi evolutivi sono sinonimo di miglioramento. Ed infatti all’iniziale e vivificante Soffio divino si è contrapposto, soprattutto negli ultimi trent’anni, l’Alito normalizzatore del duo Wojtyla-Ratzinger (Papa & Inquisitore), prima, e, poi, del solo Ratzinger-Benedetto XVI (l’Inquisitore reso(si) Papa) unitamente ai loro curiali sodali (laici e non).
Ed eccoci, dunque, ai frutti di ieri e di oggi. Al progressivo disamore verso questa Chiesa/Istituzione che appare sempre più lontana da Gesù, l’unico Maestro che invece, diversamente da essa, continua ad attrarre quanti (l’ex gregge…?) trovano in Lui – ed in Lui solo – il “senso profondo” cui aspirano: la Fede. Costoro, spesso inquadrati nella parola “base”, forse sono il nuovo “popolo” che, pur tra tanta sofferenza e perplessità, ha iniziato a “pensare”. Essi ritengono, come il sottoscritto, che la Fede sia in Gesù e nella sua sequela. Niente altro.
Raggiungere questo tipo di consapevolezza è, secondo me, una buona notizia.
La Fede non può essere raccontata da intermediari o servita come una minestra. La Fede non ha ricette – non può averne – ed è solo frutto di un incontro personale ed intimo con il Maestro. Deve essere nutrita quotidianamente, solo rivolgendosi a Gesù, attraverso la Parola.
Il credente, allora, dovrebbe essere colui che è stato educato (?) e si educa continuamente (!) – tecnicamente si parla di discernimento – ad eliminare ogni sorta di ostacolo/intermediazione tra sé ed il Maestro ed a volgere la propria coscienza all’intelligenza dell’ascolto.
La buona notizia è che oggi, diversamente dal passato, è possibile discernere più facilmente. La cattiva, è che ancora oggi, come per il passato, qualcuno continua a fare di tutto per impedirlo, però con minori possibilità.
Il sapere non è più di pochi e per pochi; non è più trasmesso a pochi e, soprattutto, va validato e verificato alla luce della scienza e non può essere imposto da nessuna teoria/dogma neanche quando spacciato per sacro.
Anche della coscienza si comincia ad avere sempre più consapevolezza. Sempre più credenti, infatti, vogliono confrontarsi con altri credenti – passaggio gregge –> popolo e pastore–>fratello ? – su quanto è stato o continua ad essere loro insegnato/proposto/imposto come “verità di fede”, alla luce della loro coscienza. E spesso molti rimangono, come il sottoscritto, quanto meno perplessi!
Le parole «ecumenismo» e «comunità», vera novità del Concilio, per quanto sopra esposto e per quanto mi riguarda, devono perdere la comune accezione data loro, per essere intese come fraterna disponibilità al confronto.
La Fede non è – non può essere – appartenenza.
E questa è, oggi, la mia specifica esperienza di Fede: un non bisogno di «comunità» intesa come gruppo/appartenenza e la necessità, viceversa, di «essere disponibile» al mio prossimo. Ma perchè questa disponibilità possa essere tale, devo svincolarla da qualsiasi gruppo/comunità/recinto che ne impedirebbero, di fatto, l’efficacia, cioè i frutti.
Aver Fede per me, oggi, significa fare mio quanto scritto in Matteo (6, 1-6) – ‘passo’ apparentemente anti-ecumenico ed anti-conciliare – ed educarmi ad avere la predisposizione d’animo del samaritano, che il suo prossimo lo incontra e non lo cerca.
La mia Fede, oggi, è in fieri e rifugge il concetto di ‘legame’, nonostante sia proprio questo il significato di ‘religione’ (religio). Qualsiasi forma di ‘organizzazione’ o di ‘etichettattura’ mi scatena una sorta di «claustrofobia spirituale» dagli effetti, per me, deletèri ben resi dalla frase giovannea che mi permetto di dedicarmi: «la lettera (mi) uccide lo Spirito»!
Ho bisogno, allora, di continuare il mio personale – personalissimo – rapporto con Gesù traducendolo nel mio vivere quotidiano (lavorativo e familiare, in primis), fatto di assoluta, bellissima, provvisorietà: la mia «ecumenica asocialità».
Massimo De Vinco
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